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“CONTROVENTO”, Rivista d’Arte
“Pietro Giambelluca uno scultore grande anche se non ancora famoso”, di GIOVANNI MARZOLI
Pescara 1978
Ho conosciuto Pietro Giambelluca recentemente, in occasione di uno di quegli incontri di artisti che regolarmente falliscono in provincia. E’ strano che, pur vivendo nella stessa cittadina ed operando insieme nella scuola, anche se a diversi livelli, non ci eravamo conosciuti prima.
Sarà stata la mia diffidenza verso la pletora degli artisti, che troppo frequentemente oggi si rivelano pseudo-
Sarà stata l’intensa e confusa congerie di notizie e conoscenze che caratterizza il nostro tempo e che in me genera una forte e quasi indiscriminata attività selezionatrice, quasi un rifiuto per un istinto di difesa.
Senza ormai volerne ricercare i perché, d’altra parte rilevanti soltanto in sede psicologica, giunsi al suo studio, in via Dante AIighieri 37, e, dunque, a pochi passi da casa mia, veramente disinformato sul suo conto: penso che questo non debba destare meraviglia con i tempi che corrono; si può sapere ciò che accade in Cina o dentro una foresta africana ed ignorare quel che c’è, anche di notevole, fuori la porta di casa: miracoli del sistema informativo della vita moderna e anche di quel che c’è dietro!
Varcata la soglia del suo studio, intanto, mi resi conto che Pietro Giambelluca non era un pittore, ma uno scultore. Questo mi rincuorò subito, anzi mi suscitò un vivissimo interesse, giacchè, di solito, nella scultura non si bara, nella scultura difficilmente vien voglia d’ingannare sé stessi e il prossimo.
A suo studio Giambelluca ha adibito un appartamento di alcune stanze e servizi. In una di queste stanze ci sedemmo fra gessi, bronzi, lastre di rame, a discutere l’argomento del nostro incontro. Invero io ero più spettatore che interessato ai fatti della discussione. Ascoltavo quel che si dicevano gli artisti e intanto mi guardavo intorno, lasciando che quei gessi e quei bronzi mi procurassero sensazioni, senza osservarli criticamente, senza indagare sulle loro particolarità, per timore di trarne un giudizio affrettato ed ingannevole. Ma intanto che procedeva la discussione, un giudizio mi si andava delineando: mi trovavo in un laboratorio con le caratteristiche di una vecchia bottega, in cui si coglie il fervore del lavoro, risaltano la sapienza del mestiere, la voglia di fare e l’amore per ciò che si fa. E questo giudizio mi si andava raffrontando a mano a mano che la discussione prendeva tempo e se ne vanificava lo scopo: vedevo Giambelluca, per quanto cortese con gli interlocutori, soffrire di star seduto per un discorso vano, anzichè essere impegnato a muovere le mani intorno a un abbozzo di figura, che restava inerte su una base girevole, come in attesa di assumere la sua luce dentro lo spazio in cui andava prendendo forma.
La sua persona brevilinea, un blocco di nervi, un grumo di energia che si acuisce negli occhi dallo sguardo traslucido e penetrante, faceva un certo sforzo a star ferma sulla sedia e si agitava di tanto in tanto per interiore veemenza.
Non era davvero poco quello che avevo notato. Se il mio giudizio era giusto, io mi trovavo ad aver accertato quel che è basilare per un artista: la conoscenza del proprio mestiere come dominio dei mezzi tecnici e come amore a quell’attività manuale che è espressione della propria spiritualità creatrice, il bisogno di fare per materializzare ordinatamente immagini e sensazioni che urgono nell’animo.
Nei giorni successivi a quell’incontro, più volte Giambelluca m’invitò a tornare nel suo studio; questo è un privilegio che egli riserva a pochissimi. Neanche lui sapeva della mia attività di scrittore e di critico, ma lo avevano interessato certe mie osservazioni e considerazioni. Io ci andavo con crescente interesse, perché avevo ormai scoperto in lui un autentico artista, ciò che invero capita assai raramente.
Avevo visto tutte le stanze, l’angolo-
L’avevo visto modellare ritratti con rapide pressioni delle dita sulla materia molle che aggiungeva con estrema sicurezza, mentre il committente posava nella sua naturale espressione e conversava. Ed avevo guardato nascere le opere dal disegno allo sbalzo, dalla creta ai gessi, alla forma per la fusione a cera persa come ormai soltanto non molti sanno fare. Ed ora mi attardavo a considerare quest’opera già finita, a ricordare questa o quell’opera portata via da qualche acquirente (il vuoto di un’opera venduta è definitivo, perchè non è nello spazio ma nell’animo nostro; non voglio chiedermi ciò che sopporta l’animo dell’artista, costretto, per la natura della sua arte, ad alienare le creature della sua capacità creativa).
E mi attardavo a considerare la testa del concittadino Giuseppe Bonaviri, illustre scrittore e siculo come Giambelluca, colto nella sua espressione di pensosità trasognata, volta quasi a ritrovare i segni della nostra esistenza oltre le cose del tenpo, quale ci appare nelle sue taciturne passeggiate cittadine e dalle assorte pagine dei suoi libri.
Intanto Giambelluca, che nel frattempo mi aveva anche conosciuto come poeta e critico, mi parlò del suo intendimento di una mostra dedicata alla Ciociaria: aveva già preso accordi per la sala mostre dell’E.P.T. di Frosinone e mi chiedeva consigli. I nodi più importanti erano due: la preparazione del catalogo e l’approntamento delle opere.
Per la presentazione in catalogo, io suggerivo una firma notevole, che con la sua autorità sottolineasse la validità e l’importanza della mostra. Giambelluca sostenne che la dignità della mostra è data dalla validità delle opere e non da testimonianze più o meno magniloquenti. Non potevo dargli torto. Avevo visto mostre con firme di presentatori illustri e mi avevano fatto pena le une e le altre: si risolvevano in tentativi di turlupinature subito smascherate dal pubblico scaltrito. Non c’è presentazione che tenga, a fronte di opere che non hanno validità artistica di un certo livello.
Altra affermazione espressa, come esigenza, da Giambelluca era che il critico deve conoscere a fondo l’artista da presentare. Non nascondo la mia soddisfazione per avermene dato l’incarico.
Mi consegnò un mucchio di articoli, stampe e cataloghi, dove si parlava di lui, sin dal 1953 quando s’impose, non ancora ventenne, negli Incontri della Gioventù. Dopo qualche giorno gli riportai quel mucchio di carte che avevo scorso, con interesse, per conoscere quel che i critici avevano pensato della sua arte. Vi avevo trovato diversi spunti, specialmente negli articoli di Mario Pepe e negli interventi di M. Biancale, Giuseppe Bonaviri, M. Pezzato, per quanto anche quelli di molti altri rivelano notevole impegno.
Ma non mi potevano bastare per una visione criticamente completa, chiara ed obiettiva; nè mi poteva bastare la conoscenza di due belle affermazioni di Giambelluca: il trofeo della Lotteria di Capodanno del 1963 e il Trofeo Melecchi del 1974. Ne era convinto anche Giambelluca, che mi fece vedere i bozzetti e le fotografie di molte sue opere in Sicilia e in altri luoghi e, poi, mi accompagnò a vedere quelle collocate in Ciociaria.
Andare appositamente in Sicilia sarebbe stato assurdo, anche perché bozzetti e fotografie, conoscendo molte altre opere de visu, potevano darmi sufficienti indicazioni. Così potei vedere tutte le sue opere della chiesa di Piano Zucchi, nel cuore delle Madonie e nel territorio di Isnello, paese natale di Giambelluca, della Cappella vescovile annessa al famoso Duomo di Cefalù e della Cappella della Casa Universitaria delle Suore Teresiane a Palermo: sono altari, amboni, tabernacoli (notevoli i vari bassorilievi) e crocifissi. Basterebbero queste opere a sottolineare la sua operosità e la validità della sua arte.
Certamente quelle opere ci danno un aspetto significativo, quello religioso. Il valore di un artista si misura anche dalla religiosità della sua arte: è un aspetto insidioso in cui l’artista rivela la sua imprevedibilità, la sua originalità, o vi tradisce la sua incapacità a superare i modelli fossilizzati nel nostro più vieto sentire, banalizzati nell’occhio pigro del pubblico. Giambelluca ci si butta dentro senza ombra di smarrimento con modellazioni decise nelle figure ariose e serene, negli altorilievi che sanno del Duecento, eppure modernamente sentiti, nei crocifissi tormentati; e sempre la religiosità vi traspira limpidamente, come se il sacro fosse materializzato nel bronzo, reso evidente e leggibile nei volumi. E’ lo stesso senso di religiosità che si ritrova nelle sue “Maternità”, opere ricorrenti nella sua produzione e su cui la sua arte ritorna sempre con nuove motivazioni e notazioni.
Sono “Maternità” che possono essere scambiate con Madonne; hanno del profano tutti i particolari, ma l’insieme -
Insieme ci recammo a vedere le sue opere in Ciociaria: non tutte perchè ci sarebbero voluti più giorni. Visitammo a Ceprano la nuova Chiesa di S. Rocco, che ha di suo l’altare, l’ambone, il Cristo e, all’esterno, sul timpano, il Santo con due angeli in figure più che di grandezza naturale, tanto leggere che hanno il tono pittorico di un affresco.
In Arpino, superata la piazza dove sono i monumenti a Cicerone e a Caio Mario, visitammo la sua statua al barnabita San Francesco Saverio Maria Bianchi, serena e pensosa nella sua ieraticità, spoglia di ogni orpello e pura nella sua semplicità di linee e volumi, con i particolari espressi nella loro essenzialità e che acquistano risalto dall’insieme e nella collocazione della statua nello spazio della piazzetta, quasi su una balconata che si apre in mezzo al cielo sulla sottostante Valle del fiume Liri.
Ci recammo poi ad Alvito, nell’anpia e fresca Val di Comino; di Giambelluca là c’è il monumento ai Caduti di tutte le guerre, di cui vanno orgogliosi gli abitanti del luogo, come ho potuto constatare personalmente. E’ una stele in marmo di Coreno Ausonio, formata da blocchi sovrapposti e degradanti in tronco di piramide. Il primo blocco posto sulla base è ingabbiato da un bassorilievo a quattro facce, fuso in un sol pezzo. Stele e bronzo rifuggono da ogni elemento retorico e, in un‘armonizzazione naturale, si elevano e si stagliano sull’ampia valle, come monito agli uomini e come denuncia dei mali sofferti dal popolo in ogni guerra. Oltre che per questa sua opera personalissima, Alvito è significativo per un altro aspetto. Giambelluca vi ebbe la prima nomina come professore presso la Scuola media, vi stette qualche giorno e vi vide lavorare il rame da un battitore. Gli bastò per dedicarsi allo sbalzo del rame con un suo personale metodo. Oggi i suoi sbalzi sono veramente pregevoli, con figurine di danzatori, cavalli tracollanti, amazzoni selvagge, tori e daini eleganti: vi si sbriglia tutta la sua inesauribile fantasia con il risultato che quest’arte -
Ad Alatri ci recammo a vedere il “Miracolo di San Sisto”. Questa sua opera è la narrazione della traslazione delle reliquie di San Sisto ad Alatri in cinque formelle che illustrano altrettanti episodi salienti dì quel fatto miracoloso.
L’arte del Duecento ha qui una sua impronta inconfondibile, ma il taglio è moderno nel dinamismo che anima le figure (specialmente nella mula, in cui è anche notevole il linguaggio espressivo delle orecchie nelle varie formelle) e anche per l’essenzialità della quinta formella che sottolinea la ieracità dei personaggi nel trasporto delle reliquie.
Dovemmo rinunciare alla visita di molte sue opere di proprietà privata in Alatri stessa e specialmente presso molti collezionisti di Frosinone: ci sarebbe voluto molto più tempo da dedicare. Quanto visto ormai bastava per avere una conoscenza della sua vasta e poliedrica produzione, per valutare la sua personalità artistica, la sua originalità inconfondibile e stendere una breve, quanto succosa presentazione in catalogo.
Riguardo all’approntamento delle opere per la mostra, Giambelluca provvide a sbalzare una quindicina di rami, portò alla fusione alcuni bronzi, raccolse alcune sue opere (fra cui un paio di terracotte che non ha mai concesso in vendita) e raccolse altre sue opere da collezionisti privati, giacché la mostra aveva anche il carattere di retrospettiva antologica. Fu inaugurata ai primi di maggio, con l’esposizione di cinquanta opere e di una cartella litografica. Il successo è stato enorrne. Negli ultimi decenni la provincia di Frosinone non aveva goduto di una manifestazione artistica così significativa. Un particolare ne denota l’importanza: l’afflusso dei visitatori, anziché esaurirsi, andava aumentando sempre di più negli ultimi giorni.
Perché tanto successo? Perché l’arte di Gìambelluca è genuina, personalissima nella sua originalità, leggibile nel signicato delle sue opere.
Perché erano presenti tanti collezionisti ed ha avuto un concreto successo di vendita? Perché le opere di Giambelluca vengono concepite e realizzate in funzione di uno spazio e nell’attenzione all’umano: basta una sua opera in un ambiente, perché questo risulti caldo e vivo, accogliente e significativo, nobilitato da uno spiccato senso di eleganza. Questo è un elemento artistico di cui oggi ci si dimentica troppo spesso nelle angolazioni date al valore delle opere o nello stravolgimento dato alla concezione dell’arte: Giambelluca non solo si preoccupa di conoscere l’arte come mestiere, ma anche di riportarla al suo significato più vero, che poi è quello più classico, alla funzione storicamente più aderente alla sua essenza.
Non vogliamo qui analizzare tutta l’opera di Giambelluca, in un quadro critico-
Ho già accennato al sentire moderno espresso nella sua religiosità; mi piace qui esemplificare la sua modernità nella tradizione con il suo cavallo, motivo molto ricorrente nella sua produzione artistica.
Dico il “suo” cavallo perchè frutto di una sua rappresentazione personale inconfondibile e, nel contempo, originale: chi non riconoscerebbe un suo cavallo fra mille altri? E’ il cavallo siciliano che emerge dalla sua memoria e che è parte di un lontano e concreto mondo infantile, vissuto e sperimentato fino all’adolescenza, riespresso attraverso sentimenti remoti e immagini filtrate nell’ambito di un’estetica rigogliosissima e per effetto di autodisciplina artistica, mai straripante nell’iperbole, nella retorica.
E’ il cavallo delle masserie da lavoro, dalla schiena larga e le groppe rotonde. Sempre lo stesso, eppure sempre diverso. Diverso da tutti i cavalli del mondo; reale e irreale insieme. Visto e contemplato in se stesso, non in funzione del cavaliere o di qualche altro elemento. Liscio e morbido nella luce per la prorompente sensualità come in molti bronzi e rami, nervoso nella tensione luminosa e nello slancio verso l’ideale all’unisono col cavaliere come in “Intesa”, tormentato per il giuoco di luci e di ombre negli sconvolgimenti delle passioni come in “Folgorazione”.
E’ il cavallo e insieme l’uomo con i suoi sentimenti; tutto il mondo della natura che vi si raccoglie, vi prende forma e vi si esprime il cavallo che assurge così a simbolo di vita, di tutta la vita nelle sue forme e nei suoi sensi.
L’arte di Giambelluca ha questa potenza, di raccogliersi e di esprimersi tutta in ogni suo singolo elemento: nelle “maternità” come nei “cavalli”, nei “crocefissi” come nei ritratti, nei tori massicci e sconvolti come nelle figure femminili, caste e sognanti in distesa e serena carnalità. Ogni suo pezzo è un frammento del mondo in cui si rispecchia l’universo umano, in cui vibra l’uomo, tutto l’uomo con i suoi tormenti e con la sua serenità, con le sue passioni e le sue sublimazioni, con i suoi trascinamenti istintuali e le sue ascensioni ideali.
Ne scaturisce un messaggio intensamente morale, un messaggio che esorta l’uomo a non cedere alle sconfitte, ad andare oltre di esse nello slancio verso l’idea che inserisce ed essenziale alla propria umanità messaggio, dunque, che coglie la crisi della nostra contemporaneità e vi si cala come elemento positivo del suo superamento, proprio quando gran parte dell’arte cede alla crisi e si fa non – arte.
Nell’espressione della sua dimensione originale, Giambelluca non ha bisogno di questa o quell’estetica, di porre rapporti con questa o quella corrente artistica, dei supporti di questa o quella tendenza nella sua produzione: è solo se stesso senza cedimenti ai vari “ismi”, senza ubriacature ideologiche. Alieno dal “ricerchiamo” imperante, segue e interpreta i propri sentimenti nelle forme reali della vita, secondo i motivi potenti di una fantasia inesauribile e una fantasia che prorompe libera ad impastoianti schematizzazioni, sorretta sempre da una vigile capacità raziocinante, sempre fresca e sempre nuova come l’estro di un poeta.
La sua ispirazione non gli viene mai meno né si fa meno viva nella fiducia del supporto dei mezzi tecnici davvero ragguardevoli e che avrebbero la capacità di poter nascondere manchevolmente le debolezze sul piano della pura creatività.
Possiamo affermare che Giambelluca è già un grande del nostro tempo. La sua arte non teme confronti ed egli, pur operando in una provincia dall'amorfa vita culturale, si stacca dall’ambito ristretto, dai limiti del provincialismo per inserirsi in un discorso ad altissimo livello, su un piano di ampio respiro dove l’arte si articola in un linguaggio trasparente e denso di significazioni, per comunicare a tutti la bellezza, i tormenti e le aspirazioni dell’uomo contemporaneo.
Non è ancora famoso perché egli non mira a manifestarsi secondo i lanci ineffabili del nostro tempo. Il suo cammino è lento secondo il modo dei vecchi artisti e si snoda in rapporto alle committenze evitando il clamore delle grandi mostre, ancorando il suo successo alla serietà della sua professione e della sua arte.
E se questa mia nota ha lo scopo di farlo conoscere ad un più vasto pubblico, qual è quello di “Controvento”, pure è scritta nella consapevolezza che l’arte di Giambelluca si fa largo da sé poiché non ha bisogno di trombe e tromboni: è un’arte pulita per serietà di intenti, di mezzi e di modi, come è pulita tutta la sua produzione, scevra da espedienti, da mistificazioni formali e materiali, da inganni d’ogni genere nella purezza del sentire e dell’esprimersi, nel porsi e nel manifestarsi in ogni singola opera alla considerazione e alla contemplazione dell’occhio vigile del critico e del fruitore sensibile alle creazioni genuine dell’arte.
GIOVANNI MARZOLI