MONFORTE VINCENZO 1974 - Pietro Giambelluca scultore - PIGIA

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MONFORTE VINCENZO 1974

RECENSIONI

“RASSEGNA SULLA MOSTRA PERSONALE
BRONZI TERRECOTTE LITOGRAFIE
DI TERMINI IMERESE”
Presentazione di VINCENZO MONFORTE
Termini Imerese (Pa) 1974

La Personale di scultura e di litografie che Pietro Giambelluca ha allestito presso il Club Art di Termini Imerese, rinnovato, anzi rinato grazie all’intensa passione artistica del suo direttore Giuseppe Arrigo, ha offerto allo Scultore, nativo di Isnello nel cuore delle Madonie la possibilità di un “ritorno” alla terra natia, e al pubblico siciliano, la constatazione ancora una volta amara che ai nostri intellettuali ed artisti che vogliono crescere e maturare in un clima culturale più propizio, non si offre altro che la via dell’emigrazione, se non quella dell’esilio.
Il problema del mezzogiorno viene pagato non solo dagli operai e dai contadini costretti  a cercare il posto di lavoro al Nord o all’Estero, ma il più delle volte anche dai professionisti e dagli artisti migliori, con conseguente notevole impoverimento della nostra classe dirigenziale politica e culturale, senza contare le immani difficoltà che queste “intelligenze” sradicate dalla nostra terra devono superare per inserirsi, ripiantarsi nei vari ambienti da essi prescelti per operare.
Pietro Giambelluca opera e vive a Frosinone, in terra di Ciociaria, a poche decine di chilometri da Roma per gli inevitabili contatti che la sua vocazione artistica gli impone di mantenere, ma in una terra anche che, in quanto “provincia” e soprattutto in quanto ambiente, somiglia in maniera veramente singolare all’ambiente di provenienza e certamente attenua in lui la nostalgia del distacco.
Certo al critico che ama qualificare l’essenza di un artista impostandolo sul rapporto fra uomo e ambiente (e non è raro di trovarne) potrebbe far comodo sottolineare la “saggezza” della scelta, da parte di Giambelluca, di questo nuovo habitat: come quello che gli ha consentito di inserirsi in un nuovo contesto con relativa facilità, mantenendo il proprio equilibrio spirituale e soprattutto senza dover rinnegare, ma anzi facendo valere nel nuovo ambiente la primigenia vigoria di un ideale siculo e mediterraneo della vita.
Ma a noi pare che tutto ciò non serva a dar rilievo né a caratterizzare la personalità di un artista, bensì a determinarla meccanicisticamente, a “schedarla” come prodotto di un ambiente e non come creazione, ideazione che trova origine in una determinata concezione vitale. La vigoria mossa ed inquieta (tanto più inquietante, direi, quanto più è trattenuta ed assorta) delle opere di Giambelluca non dipende dalla esuberante e quasi selvaggia sua natura di siciliano, quanto da un drammatico e travolgente empito esistenziale. Voglio dire che il movimento impetuoso dei suoi cavalli o dei tori, la vitalità primitiva e la forza che erompe dai lombi animali e umani costruiti drammaticamente sul filo dell’iperbole espressionistica, la concitata asperità dei piani che dà singolarità di movimento e compattezza di masse alla costruzione plastica, tutto ciò risponde a un bisogno di esaltare la vita a livello naturale, di cantarla per tutto ciò che di fervido, eccitante, vivido essa offre.
Questa ci pare infatti la weltanschauung che si sottende alle opere più dinamiche e mosse (a tal punto da rasentare talvolta l’esasperazione barocca) dell’artista: opere come i bronzi “Ultimo Muggito” o “Cavallo e Amazzone”.
Ma questo entusiasmo incondizionato, questa peana alla vita nella sua irruenta ed alogica voglia di vivere, rappresenta solo uno dei poli della concezione dell’arte di Giambelluca. C’è sull’altro versante, o se si preferisce sul polo opposto, un’angoscia esistenziale che spesso raccoglie in sé la figura, soprattutto umana, e la pone in assorta contemplazione del senso e della validità del mondo e delle cose. Allora, dinanzi al muro del mistero contro cui si scontra l’intelligenza e la meditazione umana, anche il discorso formale di Giambelluca si fa diverso: la scabrosità irta dei piani cede il posto alla dolcezza della linea plastico-compositiva; l’irruenza animale viene sostituita dalla staticità perplessa e ieratica della figura umana, come nelle due belle “maternità” (n. 1 e n. 2). E addirittura viene il sospetto (piacevole sospetto) che quel tanto di esagitazione barocca, implicita nelle composizioni più dinamiche e vitalisticamente lanciate, sia lì non a denunciare l’incapacità dell’artista a mantenersi entro una rigorosa misura formale, quanto invece, e soltanto, a rendere testimonianza del fatto che il “canto” di Giambelluca non è mai immemore, né esistenzialisticamente prosciolto dal dubbio e dalla perplessità, ma consapevole dell’impossibilità di una dimensione umana, abbassata a livello puramente sensitivo, “corregge” quell’esaltazione e quel canto col sale amaro della deformazione esasperata e con ironia.
    
                             VINCENZO MONFORTE


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