Menu principale:
"IL SALOTTO DI CONTENZIONE"
Catalogo della “Mostra Personale di Scultura"
Presentazione di ANDREA ARAGOSTI
Lucca 1974
Il fluire dell’essere inteso come vitalità inarrestabile, il gusto per una ricerca plastica diretta, ora verso il corposo, ora verso lo sfaldamento materico, sono i momenti più significativi della mitologia formale di questo artista siciliano, rappresentante unico, ormai, di una civiltà primigenia e mediterranea.
Eppure l’intensità dell’ispirazione non assume le forme di una spontaneità superficiale, ma è costantemente temperata da un rigoroso controllo espressivo, come testimonia, del resto, l’attività pittorica propedeutica.
Per questo equilibrio (“delicato” finchè si vuole) tra “ingenium” e “ars”, la presenza di Giambelluca nella terra di Michelangelo (che non disdegnò di andare a curarsi dal “male della pietra” in Ciociaria, dove oggi Giambelluca ha fissato la sede naturale della propria attività) è non solo giustificata, ma molto opportuna.
L’eclettismo, per niente qualunquistico, della sua sensibilità lo porta via via, secondo il materiale usato, ai risultati dei bronzi, alle “verità” drammatiche di certe terracotte (vedi la “Deposizione” della Chiesa di San Rocco in Ceprano).
Il discorso formale, poi, è sempre all’unisono con la realtà che l’artista fa oggetto della propria ricerca: così ad esempio l’istantanea presentazione di cavalli o cavalli ed amazzoni si risolve tutta e sempre in coaguli luministici, in scatti repentini (che sono poi, in termini formali, quegli “…amplessi ferini ed adolescenti amazzoni, stremate nel piacere…” di cui parla, al riguardo, Giuseppe Pelloni).
Così anche la ieratica sobrietà del volto di “Rosalba”, a mezzo tra la maschera funeraria e la dolcezza sommessa e atemporale di un’icona, ricorda, nella levigatezza delle superfici, esperienze di scultura quattrocentesca provenzaleggiante e più precisamente Francesco Laurana.
Così infine l’enfasi corale della “Stele di Alvito”, al di fuori dei “discorsi” commemorativi più o meno commossi, vive tutta nell’impeto di un bronzo martellato spasmodicamente in cui il fitto, drammatico coacervo di linee, piani, masse, oggetti, spazi vuoti è amalgamato ed organizzato da una luminosità intensa che talora confonde, talora evidenzia, i rapporti strutturali interni anche più sottili, in un’osmosi continua di caos e cosmos.
ANDREA ARAGOSTI